L’Ucraina e Putin tra storia e ideologia

Recensione a: Andrea Graziosi, L’Ucraina e Putin tra storia e ideologia, Laterza, Bari- Roma, 2022
di A. Soto

 

L’autore è uno dei maggiori studiosi della storia contemporanea russa. Legge il cirillico, ha studiato e insegnato tra Stati Uniti, Russia ed Europa ed è autore, tra l’altro, di una storia dell’Unione Sovietica 1914-1991 uscita per il Mulino tra il 2007 e il 2008.

Di orientamento democratico liberale, vicino al mite progressismo di Giuliano Amato, col quale ha scritto un libro, è uno degli intellettuali più informati sulla situazione russa, qui passata attraverso il vaglio dell’analisi storica. Questo suo testo, che collaziona interventi e studi degli anni precedenti aggiornandoli alla luce della guerra, a mio avviso dà utili coordinate interpretative, anche se è scritto in maniera non sempre brillante e non è lineare nella sua struttura. Inoltre offre conferme riguardo alla lettura della guerra come frutto dell’imperialismo russo, fornendo ulteriori elementi di approfondimento a riguardo.

Prendiamo il toro per le corna e, data la presa in Italia del discorso putiniano, sul fatto che sarebbe stato il mancato rispetto delle promesse fatte di non allargare la Nato a oriente a costringere Mosca a scatenare la guerra, Graziosi ci ricorda che:

  1. non si tratta di promesse ma di discorsi informali sul possibile futuro di una Germania riunificata tenutisi all’inizio del 1990 tra diplomatici sovietici e americani;
  2. il 5 dicembre 1994 Mosca firmò con Stati Uniti, Regno Unito e Ucraina il trattato di Budapest, un impegno questo sì formale e solenne a non violare, e anzi a garantire, i confini di quest’ultima in cambio della sua adesione al trattato di non proliferazione e del trasferimento graduale di più di 4.000 testate nucleari dall’Ucraina alla Russia;
  3. che la Nato non costituisse una minaccia, per di più crescente, è confermato dai fatti: per preparare l’invasione dell’Ucraina la Russia ha ammassato truppe ai suoi confini per mesi; al contrario, i 315.000 soldati americani in Europa nel 1989 erano diventati 107.000 nel 1995 e circa 60.000 nel 2006 rimanendo su questo livello fino al 2021.

Le ragioni dell’invasione militare russa in sostanza sono ascrivibili alla Russia medesima. Per dimostrare ciò Graziosi analizza la storia del Novecento di Russia e Ucraina sino a oggi.

Il primo conflitto del nuovo potere bolscevico dopo la Rivoluzione di ottobre è proprio contro l’Ucraina, nel dicembre 1917. Lungi dal “creare” l’Ucraina, come ha sostenuto Putin, Lenin reprime gli sforzi di costruire un’Ucraina indipendente, che viene però riconosciuta dopo il trattato di Brest-Litovsk del marzo 1918. Crollata la Germania a novembre, le truppe russe tornano a occupare Kyïv, ma il secondo governo bolscevico ucraino è presto travolto da un’ondata di rivolte che uniscono questione nazionale e questione sociale: i contadini si sollevano contro i primi tentativi di collettivizzare la terra e contro le requisizioni, ma anche contro il disprezzo per le cose ucraine dimostrato dai bolscevichi. Solo a quel punto, dopo i due tentativi di fine 1917 e fine 1918 di risolvere la questione con la forza, Lenin si decide a riconoscere l’identità ucraina favorendo la costruzione di uno Stato ucraino subordinato a Mosca (su queste complicate vicende trattate nel testo con eccessiva sintesi e sul ruolo giocato dai libertari e trascurato da Graziosi, cfr. il mio breve scritto Ucraina 1917-1921. Bolscevichi e machnovisti; lo si trova più in basso, dopo la presente recensione).

A ciò seguono, oltre un decennio più tardi, la fame sterminatrice (Holodomor, ovvero la carestia voluta e sfruttata dal regime sovietico per affamare gli Ucraini, che costa quattro milioni di morti) e le repressioni del 1932-1934 con cui Stalin piega l’Ucraina.

Con il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 si delinea un problema non da poco: quello dei confini delle repubbliche post-sovietiche, tema che accende negli anni successivi diversi conflitti, tra cui quello in Donbas. Qui riemergono infatti le pulsioni autonomistiche di una parte del mondo urbano-industriale che rivendica il passato e i privilegi sovietici.

La spaccatura in Ucraina tra Est e Ovest affonda quindi le proprie radici negli anni Novanta del XX secolo per accentuarsi nella prima metà degli anni Duemila e in particolare con la “rivoluzione arancione” del 2004, tappa fondamentale della divergenza tra Russia e Ucraina, così come lo è poi il 2008, anno del trattato di associazione all’Unione Europea da parte dell’Ucraina. Da allora la questione europea diventa il principale punto di frizione. Quando il presidente Janukovyč si rifiuta di firmare il trattato, assumendo così un netto orientamento filorusso, comincia quella che gli Ucraini conoscono come “rivoluzione della dignità” e che è nota in Europa come Euromajdan che conduce al fallimento di Janukovyč e costituisce la prima vera sconfitta di Putin. In questa fase più che guidare le manifestazioni, i partiti di opposizione ne sono guidati. L’estrema destra nazionalista è presente in piazza, ma non ne costituisce una parte rilevante né numericamente né simbolicamente, come confermano le sue prestazioni elettorali dopo la vittoria, pressoché irrilevanti da allora (oggi le due formazioni di estrema destra, Pravyi sektor e Svoboda hanno in tutto un deputato).

Dopo la “rivoluzione della dignità”, Mosca fa ricorso alla forza e apre così il conflitto culminato nell’invasione del febbraio 2022. Nel gennaio 2014 cominciano scontri a Odesa, a fine febbraio c’è l’invasione russa della Crimea, ad aprile Mosca prova a replicare nel Donbas il successo della Crimea, che aveva compensato i fallimenti di Odesa e Charkiv.

In reazione a ciò, quello che si rafforza in Ucraina è un nazionalismo civico, lontano dalla destra nazionalista, di tendenza europeista e che riconosce come valori essenziali l’indipendenza della patria, le libertà individuali e, almeno fino a ora, il pluralismo linguistico (in Ucraina vi sono ucrainofoni e russofoni; le due lingue sono diverse tanto quanto lo sono le lingue latine) religioso (convivono nel paese quattro confessioni cristiane di rito ortodosso).

Passiamo alla analisi storica della Russia e andiamo agli anni subito successivi alla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Nel 1992-1993 il parlamento russo, circondato da sostenitori nazionalisti, antisemiti e antioccidentali vota la revoca della cessione della Crimea all’Ucraina. El’cin decide di bombardare il parlamento e tutto questo lascia frutti velenosi. Solo due mesi dopo il partito di Vladimir Žirinovskij, il padre del moderno nazionalismo populista russo, ottiene il 23% dei voti alle legislative del dicembre 1993, diventando il primo partito di una Russia che stava per scatenare la prima guerra cecena del 1994-1996. Questo leader della destra estremista, ammirato da Putin, ha anticipato alcuni temi chiave dell’odierno discorso putiniano, tra cui il desiderio di rivincita nello spazio ex sovietico e il fatto di considerare l’Ucraina un “non-Stato” per definizione.

L’avventura di Putin inizia con la nomina a primo ministro nell’agosto del 1999, seguita l’anno successivo dalla vittoria alle elezioni presidenziali, ottenuta col sostegno di El’cin. Comincia allora l’elaborazione di un nuovo discorso ideologico, che raggiunge la prima maturazione nel 2007 e che lo porta nel 2008-2009 a scatenare la guerra contro la Georgia e a soggiogare definitivamente e brutalmente la Cecenia; a ciò seguono gli interventi militari in Siria, la ricerca dell’alleanza con la Cina e il sostegno dato alle forze sovraniste in Europa e a Trump negli Stati Uniti.

Putin poggia le ambizioni neoimperiali della Russia su una lettura della storia in cui egli individua due precedenti illustri: il panslavismo zarista e la grandezza dell’Unione Sovietica. Bisogna infatti ricordarsi che l’élite della nuova Russia, simboleggiata da Putin, è di estrazione interamente sovietica e di regola è composta da ex alti dirigenti del partito e dello Stato. L’odierno statalismo nazionalista russo è radicato in due specifiche tradizioni sovietiche: lo status di grande potenza e il paternalismo di stato. La Russia di oggi eredita inoltre un sistema giuridico e repressivo in cui l’apparato di sicurezza giocava un grande ruolo e lasciava una indipendenza minima al potere giudiziario. Il nucleo delle burocrazie sovietiche è passato interamente allo Stato russo, che ha mantenuto tutti gli organi e le strutture di base del Kgb sovietico.

La volontà feroce di soggiogare la popolazione ucraina è, ci dice Graziosi, indice della natura potenzialmente genocidaria del conflitto in atto. C’è, insomma, il rischio concreto di una riemersione della pratica del genocidio, già messo in atto nel Novecento dall’Unione Sovietica.

Questo sarebbe il risvolto concreto del termine “denazificazione”, che è una categoria “fantastica”, cioè totalmente inventata e che va letto come “de-europeizzazione” o “deucrainizzazione”. Ciò significa un processo parzialmente già in atto: politiche repressive di massa accompagnate dalla rimozione o eliminazione di categorie considerate ostili e pericolose. È un sinonimo del noto termine staliniano “liquidazione”, utilizzato contro i kulaki e contro chi si opponeva alle politiche di Stalin stesso ed è, aggiungiamo noi, una parola che la propaganda russa ha coniato ad hoc in senso manipolatorio. Del resto Putin – ma anche lo stesso patriarca Kirill – è stato un funzionario del Kgb e utilizza l’escamotage della caccia al nazista per colpire una popolazione ritenuta non sufficientemente obbediente alla disciplina di Mosca.

Le interpretazioni esposte nel testo – che riassume un’ottica largamente condivisa nell’opinione pubblica democratica –– cozzano sia contro quelle di molti settori della sinistra più meno antagonista, parte della quale con riemergenti nostalgie sovietiche, sia contro la maggior parte delle posizioni espresse in Italia da parte anarchica. Qui il contributo più indicativo, perché chiaro nella sua impostazione e lineare nelle sue conclusioni, è secondo me l’articolo di Massimo Varengo, Contro la guerra, contro gli stati apparso sul settimanale “Umanità Nova” del 27 febbraio 2022. Egli individua la causa della guerra in corso nei bombardamenti sulla Serbia da parte della NATO nel 1999, in quanto inizio di una politica di espansione ad Est da parte degli Stati Uniti che ha progressivamente messo sotto tiro la Russia, di fatto accerchiandola. Dietro la crisi attuale c’è quindi la storia del militarismo e della sopraffazione economica da parte dell’Occidente. Di conseguenza, assodata la necessaria condanna di tutti gli imperialismi – compreso quello russo –, “l’unico impegno possibile è nella lotta contro il nostro imperialismo che manda soldati e mezzi a sostegno della NATO”. A chi scrive pare invece che sia il caso innanzitutto di riconoscere l’imperialismo russo per quale esso è e non come – ipotetica – reazione a un imperialismo d’altri; e di conseguenza considerare come prioritaria e necessaria la solidarietà e il supporto al popolo ucraino aggredito, e secondariamente, continuare nella lotta di fondo al militarismo e a tutte le politiche imperialiste, comprese quelle della NATO. In sostanza questo è il nodo del dibattito che sta vivendo l’anarchismo e di cui le edizioni Malamente hanno dato parzialmente conto pubblicando le voci di quei gruppi libertari dell’Est Europa più direttamente coinvolti nel conflitto.


 

Ucraina 1917-1921. Bolscevichi e machnovisti

A. Soto

Provo a tracciare, nella loro essenzialità, i rapporti tra bolscevichi e machnovisti che si sviluppano sul territorio ucraino tra il 1917 e il 1921, all’interno di una guerra che è sia civile, sia tra nazioni, sia tra classi. La questione è complicata e non mancano i colpi di scena. Chiedo al lettore pazienza nel seguire il filo degli avvenimenti.

Fin dai primi giorni della rivoluzione del febbraio 1917 la borghesia liberale ucraina, temendo gli eccessi della rivoluzione moscovita e cercando di evitarli nel proprio paese, pone il problema dell’indipendenza nazionale dell’Ucraina. Si forma quindi un vasto movimento autonomista guidato da Simon Petljura. Parallelamente si va formando, nel sud dell’Ucraina, un movimento contadino guidato da  Nestor Machno. Diciassettenne nella rivoluzione del 1905, condannato ai lavori forzati a vita per associazione anarchica dalle autorità zariste nel 1908 e infine liberato dalle prigioni di Mosca con la rivoluzione del febbraio 1917, torna a Guljaj Pole, nel sud dell’Ucraina, dove diventa presidente del soviet dei contadini e degli operai di Guljaj Pole e l’anima del movimento sociale libertario che espropria le terre e i beni degli agrari. La machnovščina non fu un movimento puramente anarchico ma un movimento contadino con forti caratteristiche democratiche e libertarie: una sorta di democrazia contadina militarizzata che combatte per difendere quanto i contadini riescono a ottenere dalla primavera del 1917, cioè la terra e i soviet liberamente eletti. Tale movimento è espressione di interessi materiali e di idee diverse da quello di Petljura che nel frattempo si fa Stato e a dicembre proclama l’indipendenza della Repubblica ucraina dalla Russia (bolscevica). Machnovisti e Petljuriani, lo vedremo, non scendono mai a patti, percependosi su due fronti opposti dal punto di vista dell’appartenenza di classe. I primi sono internazionalisti, i secondi nazionalisti e antisemiti.

Per piegare le forze nazionaliste rappresentate da Petljura, i bolscevichi spediscono le proprie truppe in Ucraina. Dopo un’accanita lotta, il 25 gennaio 1918 i bolscevichi si impadroniscono di Kyïv, vi installano il loro governo, ma riescono a estendere il proprio potere solo parzialmente, con gli uomini di Petljura che si ritirano e si fortificano nell’ovest del paese.

Con l’occupazione dell’Ucraina da parte degli Austro-Tedeschi in seguito al trattato di Brest-Litovsk del marzo 1918 e il ritiro dei bolscevichi, i partigiani di Petljura rientrano a Kiev proclamando una nuova Repubblica nazionale ucraina. Dopo poche settimane però gli occupanti austro-tedeschi installano un governo autocratico a loro maggiormente favorevole, con a capo Skoropadskij. Le opposizioni organizzano la resistenza: questo viene fatto sia dai Petljuriani in buona parte dell’Ucraina sia dai Machnovisti che unificano varie unità partigiane dell’Ucraina meridionale in un esercito insurrezionale sotto il comando di Machno stesso. Alla fine del 1918 le truppe tedesche e austriache lasciano il paese, a dicembre Pletljura e i suoi entrano a Kyïv, controllando tutto il paese tranne il sud dove il movimento machnovista mantiene la propria autonomia su una vasta area attorno a Guljaj Pole; qui dal dicembre 1918 al giugno 1919 vengono create nuove forme di autoamministrazione sociale di ispirazione libertaria: le comuni dei lavoratori liberi e i soviet liberi dei lavoratori.

Nel frattempo, solo un mese dopo la presa del potere di Petljura, sono le truppe bolsceviche a penetrare in Ucraina da nord e a entrare a loro volta a Kyïv, assumendo il potere sul paese, ma trovando l’opposizione dei nazionalisti di Petljura nell’ovest (che dura per tutto il 1919, fino a quando, in dicembre, Petljura ripara in Polonia) e dei machnovisti nel sud, col risultato che ciascuna delle tre forze si trova a lottare contro le altre due.

Intanto si aggiunge un quarta forza a complicare la situazione, ovvero i generali bianchi, nazionalisti e monarchici, che intervengono con l’intenzione di ricostituire l’antico impero russo. Le armate bianche guidate da Denikin puntano come prima cosa contro il sud dell’Ucraina, ovvero contro le regioni liberate dai machnovisti, ma questi ultimi, forti dell’appoggio contadino,  riescono a resistere ostinatamente a Denikin. Nel marzo del 1919, i bolscevichi e i machnovisti stabiliscono un patto di cooperazione secondo cui l’esercito insurrezionale rivoluzionario dell’Ucraina (machnovista) è militarmente subordinato al comando supremo rosso ma mantiene la sua organizzazione interna basata sul volontariato, sull’eleggibilità di tutti i posti di comando e su forme di disciplina elaborate da commissioni e convalidate da assemblee generali. In questa fase si sviluppa il forte contrasto tra il movimento machnovista e il potere comunista, che ritiene intollerabile il margine di autonomia che i machnovisti intendono mantenere. Trockij, in accordo con Lenin, si distingue prima per calunniare il movimento insurrezionale e poi, a giugno, mentre Denikin scatena una sua seconda campagna militare, per invadere la regione e colpire i machnovisti alle spalle.

A questo punto i bolscevichi sono convinti di avere piegato Machno e i suoi, ma con una serie di manovre temerarie l’Esercito insurrezionale si riorganizza. Forte di ventimila combattenti, ripartiti in quattro brigate di fanteria e di cavalleria, una divisione di artiglieria e un reggimento di mitraglieri, i combattenti libertari marciano dietro le bandiere nere con le scritte “libertà o morte” e “la terra ai contadini, le officine agli operai” contro le truppe di Denikin. Vi sono ripetute offensive, ritirate, tentativi reciproci di accerchiamento, fino a che nel settembre del 1919 l’armata machnovista riesce a schiacciare i nemici liberando tutto il mezzogiorno dell’Ucraina. Le prigioni, i commissariati, i posti di polizia sono distrutti. I nemici attivi dei contadini e degli operai vengono uccisi, così come un gran numero di grandi proprietari terrieri. Denikin si trova obbligato ad abbandonare il suo progetto di marciare su Mosca. Insomma  la controrivoluzione viene annientata per merito dell’Esercito insurrezionale machnovista. L’Armata rossa, avendo appreso della sconfitta in corso da parte di Denikin, lo attacca presso Orël precipitandone la ritirata generale. Rientra quindi in Ucraina a raccogliere gli allori di una vittoria che in realtà ha contribuito a ottenere solo in minima parte.

Nell’inverno del 1919, dopo che una epidemia di tifo esantematico fa strage dell’Esercito insurrezionale, con la metà degli uomini ammalati, le forze di Denikin tornano all’offensiva contro i machnovisti. In queste condizioni a inizio del 1920 comincia una nuova lotta senza quartiere tra machnovisti e bolscevichi con le truppe dell’Armata rossa dieci volte più numerose, che dura nove mesi.

Nell’estate del 1920 l’ex ufficiale zarista barone Vrangel’ sostituisce Denikin alla testa del movimento bianco riuscendo a raggruppare i resti delle truppe denikiane e prendendo l’iniziativa contro i bolscevichi. A loro volta, come al tempo di Denikin, i machnovisti decidono di impiegare le proprie forze rimaste contro Vrangel’, considerandolo il nemico numero uno e trovano una nuova intesa con i bolscevichi. Nell’autunno del 1920 rossi e machnovisti infrangono la resistenza di Vrangel’ le cui truppe sono costrette a imbarcarsi dal litorale sud della Crimea riparando all’estero.

Infine il governo bolscevico scatena la sua terza e ultima guerra contro i machnovisti. Una lotta, quella tra l’autorità e la rivoluzione, che dura dal novembre del 1920 all’agosto del 1921, concludendosi con l’annientamento dell’esercito insurrezionale. Machno, ripetutamente ferito, si rifugia in Romania, da dove raggiunge poi Parigi.

 

Per approfondire, in italiano:

Pëtr Aršinov, Storia del movimento machnovista, a cura di Virgilio Galassi, Immanenza, 2014 (prima ed. Napoli 1954).

Ugo Fedeli, Dalla insurrezione dei contadini in Ucraina alla rivolta di Cronstadt, La Rivolta, Ragusa, 1992 (prima ed. Milano 1950).

Nestor Machno, La rivoluzione russa in Ucraina: marzo 1917-aprile 1918, La Fiaccola, Ragusa, 2022 (prima ed. Ragusa 1971).

Alexander Shubin, Nestor Machno: bandiera nera sull’Ucraina. Guerriglia libertaria e rivoluzione contadina (1917-1921), elèutera, Milano, 2022 (prima ed. 2012).

Mikhail Tsovma, Bandiera nera sull’Ucraina. Il movimento machnovista (1917-1921), in Antonio Senta (a cura di), Gli anarchici e la rivoluzione russa (1917-1922), Mimesis, Milano-Udine, 2019, pp. 53-61.

Volin, La rivoluzione sconosciuta 1917-1921, edizione anarchiche insurrezione, Cagliari, 2010 (prima ed. Paris 1947), pp. 369-512.